Pubblicato nel 1940 a Buenos Aires, L’invenzione di Morel è il romanzo che spinse Borges a definirlo “perfetto”, intuendone la struttura rigorosa e l’ambizione metafisica.
A prima vista il libro si colloca nel solco del racconto fantastico e d’avventura: un fuggiasco, braccato dalla giustizia, approda su un’isola remota che sembra uscita da un incubo wellsiano, come l’Isola del dottor Moreau.
In un ambiente ostile, fatto di paludi e costruzioni misteriose, egli scopre la presenza di strani abitanti borghesi e sofisticati che si muovono tra le rovine come fantasmi inconsapevoli della sua esistenza.
Con il tempo capisce che non sono esseri reali, ma riproduzioni prodotte da una macchina ideata dallo scienziato Morel.
Quell’invenzione registra e ripete all’infinito un frammento di vita: conversazioni, gesti, scene quotidiane che ritornano identiche, senza progresso né cambiamento. Non più durata che fluisce, ma cristallizzazione; non più memoria che custodisce, ma immagine che sostituisce. È il sogno antico dell’uomo: trattenere l’istante, che si rivela, sotto la luce impietosa del romanzo, come un incubo: un eterno presente che priva l’esistenza del suo respiro.
L’invenzione di Morel non crea l’immortalità, ma la sua caricatura, una fissità che nega la possibilità stessa di futuro.
Il protagonista si innamora di Faustine, una delle figure intrappolate nella registrazione. Condannato a un amore impossibile, sceglie di farsi egli stesso immagine, accettando di entrare nella macchina per poterle restare accanto. È un gesto che ha la grandezza tragica di un sacrificio: rinunciare alla vita concreta per un simulacro, confondere la sopravvivenza con la ripetizione.
In questa scelta si concentra il paradosso umano: la paura della fine ci spinge a fabbricare surrogati d’eternità che, invece di salvarci, ci sottraggono all’esperienza autentica del vivere e del morire.
L’invenzione di Morel è dunque insieme favola e teorema, parabola e speculazione: un laboratorio narrativo in cui il tempo, anziché scorrere, viene smontato e ricomposto in un congegno che rivela la fragilità del desiderio umano di permanenza. Non a caso Borges lo chiamò “perfetto”: non per la sua chiusura armoniosa, ma perché in poche pagine riesce a condensare un interrogativo che attraversa tutta la filosofia Occidentale: cosa accade al tempo quando l’uomo tenta di sottrarlo alla sua stessa legge?
Forse ciò che L’invenzione di Morel ci lascia è un avvertimento che riguarda anche noi della società post-industriale: nel nostro affannarci a inseguire l’eternità attraverso immagini, memorie artificiali e repliche infinite, non facciamo che condannarci alla ripetizione, trasformando la vita in un eterno presente che non conosce più né futuro né oblio.