Album perturbante e magnetico, come se una voce devota si fosse smarrita in un sogno elettronico, sospesa tra cielo e oltretomba. Fire of God’s Love, inciso nel 1976 da Suor Irene O’Connor, religiosa australiana dell’ordine dei Francescani Missionari di Maria, è uno di quei dischi che non si possono collocare: troppo mistico per essere pop, troppo spettrale per essere musica liturgica, troppo ingenuo per essere sperimentale eppure troppo audace per non esserlo.
Registrato a Singapore insieme a Suor Marimil Lobregat che curò interamente la presa del suono e la produzione, l’album è un piccolo miracolo tecnico e spirituale: un’opera autoprodotta da due suore missionarie che, nel cuore degli anni Settanta, riescono a costruire un universo sonoro a metà tra field recording, folk religioso e proto-elettronica da sacrestia cosmica.
Le voci riverberate, i cori eterei, le chitarre trattate con un’eccessiva quantità di eco, e quelle improvvise accelerazioni ritmiche, creano un’atmosfera sospesa e quasi ipnotica. Non è difficile capire perché oggi il disco sia diventato un oggetto di culto tra i collezionisti di outsider music e tra chi cerca nell’arte sacra la vertigine dell’allucinazione mistica.
La cosa più sorprendente è la contraddizione interna: il messaggio cristiano esplicitamente luminoso (“Love is His Word”, “Fire of God’s Love”) si sprigiona da un suono cupo, quasi medianico, che sembra provenire da un altrove insondabile. È come se la fede avesse trovato un linguaggio elettronico tutto suo, privo di mediazioni, diretto, crudo e perfino inquietante.
Oggi Fire of God’s Love appare come un documento irripetibile: una forma di devozione trasformata involontariamente in avanguardia.
Un disco che, pur nato per evangelizzare, finisce per evocare i fantasmi del sacro stesso la voce di Dio che risuona in una cattedrale vuota, registrata su nastro magnetico da due suore visionarie.