Vizio di forma (Inherent Vice, 2014) di Paul Thomas Anderson è un’opera che si colloca in un punto di frizione tra la tradizione del noir classico e la sua disgregazione postmoderna. L’adattamento del romanzo di Thomas Pynchon non è mai semplice “trasposizione”, ma un atto di decifrazione, o meglio, di impossibilità di decifrazione: Anderson assume la scrittura labirintica e paranoica dell’autore americano e la traduce in un dispositivo visivo e narrativo volutamente eccedente, oscillante fra densità e dispersione.
Il film, intriso di un’atmosfera psichedelica e lisergica, costruisce un’esperienza ipnagogica che smentisce le convenzioni del genere. La detection, cuore pulsante del noir da Chandler a Hammett, qui implode in una proliferazione centrifuga di indizi, piste e false piste: non è più la ricerca della verità a muovere la trama, ma il fluire stesso delle sue deviazioni, in una spirale quasi entropica.
È come se il noir, giunto alla fine del XX secolo, si specchiasse nella propria impossibilità di produrre ancora ordine, verità o giustizia.
In questo senso Inherent Vice dialoga con una genealogia precisa: dal disincanto corrosivo di Chinatown (1974), che smontava il mito della California e dei suoi padri fondatori, fino al Lungo addio (1973) altmaniano, dove l’investigatore diventava figura residuale, spaesata in una società che aveva perso i propri codici. Anderson, però, radicalizza questa traiettoria: Joaquin Phoenix/Doc Sportello non è solo un “privato” disorientato, ma il corpo stesso di una controcultura al tramonto, una libertà disarticolata, travolta dalla restaurazione degli anni Settanta.
La dimensione storica è essenziale: ambientato alla vigilia del Watergate, il film registra le ultime convulsioni della controcultura californiana, fagocitata dall’infiltrazione della CIA, dalle connivenze fra polizia e criminalità organizzata, dai circuiti economici e immobiliari che già prefigurano la Los Angeles iper-finanziarizzata degli anni Ottanta.
L’America paranoica di Pynchon – Nixon, nazisti in motocicletta, dentisti cocainomani, eroina, pussy eaters, comunità ariane e minoranze perseguitate, corporation opache, non è solo caricatura, ma affresco politico: il passaggio dal sogno lisergico all’incubo di un paranoico controllo capillare (Watergate).
Il tessuto sonoro e iconografico contribuisce a questa stratificazione: dai Can a Sam Cooke, dalla marijuana onnipresente alle banane al cioccolato, Anderson costruisce un mosaico che non è mai semplice citazionismo, ma memoria materiale di un’epoca, satura di eccessi e di cadute.
La messa in scena è ipertrofica ma rigorosa, giocata su contrasti di luce che evocano la continuità con i noir classici (Il mistero del falco e soprattutto Il grande sonno) e al tempo stesso li deridono, li svuotano, li travestono.
Josh Brolin nel.ruolo.di Bigfoot regala una performance irresistibile, in bilico fra parodia e ferocia, mentre Joaquin Phoenix giganteggia in un ruolo che diventa allegoria: Doc Sportello è un detective incapace di decifrare, ma proprio in questa incapacità si riflette l’impossibilità, per lo spettatore e per la società americana, di trovare ancora un centro narrativo, un filo conduttore.
Inherent Vice non è un film per tutti, né vuole esserlo: nella sua superficie caotica e ilare nasconde una malinconia acuta, il racconto della perdita di una libertà – esistenziale, culturale, affabulativa – che la società americana non avrebbe mai più recuperato.
Anderson coglie il momento in cui il sogno della controcultura si spegne e il cinema stesso diventa archivio di una memoria irrimediabilmente perduta.