Il lungo addio (The Long Goodbye, 1973), regia di Robert Altman.
Un noir anomalo, decentrato, ironico e disforico, che tradisce volutamente Chandler per evocare una poetica più ellittica, quasi pynchoniana. Altman gira quello che potremmo definire il “canto del cigno” del noir classico americano, filtrandolo attraverso lo sguardo disilluso degli anni ’70. Il suo Philip Marlowe, incarnato da un Elliott Gould memorabile, è forse il più radicale e riuscito: sornione, dinoccolato, trasandato con grazia, ma lucidissimo — un city Jew flâneur, spettatore nevrotico e quasi metafisico di una Los Angeles livida, sonnambula, intrisa di paranoia e languore post-hippismo. Intorno a lui ruotano archetipi corrosi: criminali psicotici, scrittori alcolizzati alla Hemingway (un magnifico Sterling Hayden), miliardari esausti e hippies in acido. Mark Rydell è il gangster ebreo sadico che rimanda a Bugsy Siegel, e in una fugace apparizione compare un giovanissimo Arnold Schwarzenegger come scagnozzo silenzioso. La fotografia vaporosa e straniante di Vilmos Zsigmond trasforma la California in un limbo torbido e sospeso. Il finale, secco e chirurgico, chiude il cerchio con uno sparo che è anche un gesto simbolico: fine del sogno, fine del genere, fine dell’innocenza. Un capolavoro sghembo, malinconico, una delle vette più lucide della contro-Hollywood degli anni Settanta. Imperdibile.