Riso kosher è molto più di un saggio sulla comicità. È un’archeologia dell’anima ebraico-americana, un atlante emotivo che attraversa un secolo di risate per raccontare, in controluce, la più profonda e tormentata ricerca di identità collettiva della modernità. L’autore, con rigore storico e sensibilità culturale, ricostruisce le traiettorie della comicità ebraica negli Stati Uniti come una forma di sopravvivenza spirituale, un modo per esorcizzare la marginalità, per disinnescare la violenza dell’antisemitismo e per ribaltare, con un sorriso amaro, il trauma dell’esilio.Il libro procede come un mosaico: dall’immigrazione di massa degli shtetl dell’Europa orientale al mito americano dei Catskills — le cosiddette Borscht Belt, i resort di villeggiatura dove, tra gli anni ’30 e ’60, nacquero le prime generazioni di comici ebrei — fino all’epopea hollywoodiana, che trasformò l’umorismo diasporico in un linguaggio universale. Lungo questo percorso, la risata ebraica assume la funzione che aveva il midrash nella tradizione: un modo per interpretare il mondo, per far parlare il silenzio di D-o attraverso l’assurdo dell’esistenza.Dal muto di Al Jolson e dei Fratelli Marx al caos anarchico dei Three Stooges, dal nevrotico umanesimo di Woody Allen alla satira cosmica di Mel Brooks, dal clownismo sentimentale di Jerry Lewis fino all’ironia postmoderna di Jerry Seinfeld, Riso kosher intreccia le biografie dei comici con la storia di un popolo che, pur ridendo, non ha mai smesso di interrogare la tragedia. Ogni risata diventa una forma di resistenza, un modo per dire l’indicibile: la Shoah, l’assimilazione forzata, la colpa della sopravvivenza.L’opera è anche un raffinato studio sociologico. Mostra come la comicità ebraica americana sia stata un laboratorio di autoanalisi collettiva, una risposta intelligente al dilemma dell’identità: essere dentro o fuori l’America, assimilarsi o restare “altro”. L’ebreo americano, spesso rappresentato come nevrotico, verboso, intellettuale, ha trovato nella scena comica un luogo di traduzione culturale, dove il trauma migratorio si trasforma in linguaggio, e l’ironia diventa un ponte fra Torah e show business.
Lo stile del libro alterna con naturalezza l’aneddoto e la riflessione teorica, la citazione colta e la battuta fulminante. Dietro la leggerezza apparente delle gag, si intravede una profonda consapevolezza antropologica: ridere, per gli ebrei d’America, non è un atto di evasione ma un gesto teologico. È la versione secolare del Simchà, la gioia come dovere morale.Eppure Riso kosher non si limita a celebrare un patrimonio culturale: lo interroga. Mostra come l’umorismo ebraico, nel passaggio dal villaggio yiddish all’industria dell’intrattenimento, perda progressivamente la sua valenza comunitaria per farsi lingua del mondo. E in questa universalizzazione, forse, si consuma il paradosso più affascinante: una comicità nata dall’esperienza del margine diventa la voce dominante della cultura americana.
Strano ma vero — osserva l’autore con ironica precisione — in un paese dove gli ebrei rappresentano appena il tre per cento della popolazione, oltre il settanta per cento dei comici è di origine ebraica. È come se la storia avesse delegato a un popolo intero il compito di ricordare all’umanità che la verità, a volte, si può dire soltanto ridendo.