Raphael Bob-Waksberg, il cervello disordinato e geniale dietro BoJack Horseman, è tornato. Ma invece di cavalli depressi e star decadute, questa volta ha scelto una famiglia ebraica di San Francisco e un’animazione apparentemente innocua per raccontare la cosa più pericolosa che esista: la memoria.
La serie si chiama Long Story Short. In realtà si tratta di una storia lunga, contorta, piena di salti temporali, rimpianti, barzellette imbarazzanti e momenti in cui ti ritrovi a ridere fino alle lacrime e subito dopo a pensare che stai ridendo per qualcosa che non è per niente divertente.
10 episodi da 30 minuti che ruotano intorno alle vite complicate, disordinate e disfunzionali dei tre figli Avi, Shira e Yossi. Fallimenti, depressioni, separazioni, rapporti tossici e in sottofondo l’ebraismo con la sua eterna tensione tra identitarismo e assimilazione.
La genesi è semplice e geniale insieme: Bob-Waksberg, ebreo di Berkeley cresciuto in una famiglia dove la conversazione era un match di wrestling, ha deciso di raccontare non una storia, ma un modo di raccontare. L’idea è che ogni famiglia sia un midrash vivente: tutti interpretano, tutti ricordano, tutti contraddicono. Dove nessuno hai mai del tutto torto e nessuno ha mai del tutto ragione.
Così ha costruito Long Story Short come un album di ricordi scattato con una macchina del tempo difettosa. Gli episodi non seguono l’ordine cronologico: vanno avanti, indietro, di lato e dove il futuro è solo un modo più elegante per parlare del rimpianto.
Serie programmaticamente, profondamente ossessivamente ebraica. Non solo nei simboli, nel continuo uso delle parole in yiddish nei riferimenti alle feste e al cibo, ma principalemente nella struttura mentale dei personaggi: tutto è discussione, commento, rielaborazione. Nessuna scena è mai “solo” quello che vedi.
Ogni frase porta dietro di sé tre generazioni di ansia, due di colpa e un senso dell’umorismo che serve a sopravvivere a entrambe.
Bob-Waksberg conosce il meccanismo. L’ha ereditato culturalmente, ma lo usa con estrema intelligenza.
Sa che l’umorismo ebraico non è la barzelletta, ma la torsione logica. La battuta che in realtà è una domanda. Il sarcasmo come forma di indulgenza. In Long Story Short, il riso non serve a sdrammatizzare ma a tenere insieme i pezzi.
Esteticamente, la serie sembra disegnata da qualcuno che non voleva davvero disegnarla: tratti asciutti, animazioni essenziali, zero compiacimento visivo. È come se Bob-Waksberg ti dicesse: “Guarda che non è importante come li disegno, ma come si parlano.” E infatti si parlano. Troppo. Sempre. Anche quando sarebbe meglio tacere.
Ma è proprio lì che funziona. Nelle sovrapposizioni, nei silenzi, negli scarti. Long Story Short non vuole farti credere di capire la vita: vuole ricordarti che nessuno la capisce, e che la cosa più sensata da fare è riderci sopra con un po’ di dignità e un bicchiere di vino kosher.
Ho letto in alcuni forum che si tratta de “la serie più ebraica mai scritta da Netflix”. Ed è vero, ma non nel senso etnico: nel senso esistenziale. È una serie che crede nel potere del racconto, nel dubbio come strumento di conoscenza, nel paradosso come forma d’amore. Una serie che, a modo suo, trasforma il caos familiare in un Talmud domestico e l’autoironia in una mitzvah.
Alla fine, Long Story Short è proprio come una battuta raccontata a tavola da uno zio logorroico: parte leggera, diventa serissima, poi finisce con un silenzio strano e un sorriso mezzo amaro. E quando pensi di aver capito, ti accorgi che la morale è la risata che ci hai messo in mezzo.