Oliver Twist (1948) di David Lean è un film liminare. In apparenza, un classico adattamento dickensiano. In realtà, un’opera attraversata da tensioni profonde. Guarda al passato, ma lavora contro la propria compostezza. Incrina l’ordine. Restituisce una visione cupa, quasi allucinata, del corpo sociale.
Girato in un’Inghilterra segnata dalla guerra, il film rifiuta ogni pittoresco. La Londra di Lean è satura, claustrofobica, moralmente infetta. I bassifondi non sono un altrove narrativo. Sono il cuore stesso della città. Dickens diventa così una lente spietata sul presente.
Oliver Twist si colloca tra due mondi. Eredita il rigore del cinema britannico di prestigio, lo contamina con codici mutuati dall’espressionismo tedesco, ma nello stesso tempo anticipa, per tono e scelte visive, con una intuizione formale pioneristica, lo sguardo che esploderà con il Free Cinema alla fine del decennio successivo.
In Oliver Twist l’infanzia non è mai idealizzata. Oliver è un corpo vulnerabile, spesso silenzioso, esposto alla violenza delle istituzioni. Orfanotrofi, workhouse, strade notturne sono filmati senza indulgenza. Nessun sentimentalismo. Solo durezza e oppressione.
Decisivo il ricorso a un’estetica espressionista. Ombre dense, spazi deformati, interni schiaccianti. Fagin emerge dalle tenebre come una figura da incubo. La luce giudica. Lo spazio condanna. Londra diventa una psiche collettiva deformata, un paesaggio morale prima ancora che urbano.
Alec Guinness costruisce un Fagin ambiguo e tragico. Nervoso, infantile e senile insieme. Una maschera dell’esclusione e della paura. Di segno opposto il Bill Sikes di Robert Newton: pura fisicità brutale, violenza senza mediazioni. Se Fagin è espressionista, Sikes è naturalista nel senso più crudele.
Per Lean, Oliver Twist è un momento decisivo. Prima degli affreschi epici, è un cinema dell’ombra e del dettaglio. Una regia mai neutra. Ogni scelta formale è anche un giudizio morale.
Più che un grande adattamento, Oliver Twist è un un’opera di confine, tra classicismo e modernità, tra realismo sociale e incubo. Sotto la maschera ottocentesca, affiorano le crepe dell’Inghilterra del Novecento.