Nel Teatro di Sabbath Roth costruisce un romanzo in cui l’oscenità, lungi dall’essere mero scandalo, si configura come una lente rabbiosamente lucida attraverso cui far emergere l’infrangersi dell’Io moderno, e lo fa creando in Mickey Sabbath non un personaggio ma un nodo irrisolto di desiderio, colpa e memoria: una sorta di contro-esegesi profana che ribalta, in chiave parodica e disperata, la tensione ebraica verso la responsabilità. Intorno a lui si dispiega una vicenda apparentemente semplice: un ex burattinaio sessualmente vorace, precipitato nella rovina dopo la morte dell’amante e ossessionato, in un pellegrinaggio funebre attraverso le proprie macerie biografiche, dal pensiero del suicidio ma che Roth dilata fino a farne un atlante delle sue derive interiori, un labirinto dove eros, lutto e auto-sabotaggio convergono in una stessa spirale.
Sabbath attraversa l’erotico come si attraversa un deserto spirituale: con l’illusione che il gesto trasgressivo possa tacitare la voce interna, quella stessa voce, erede lontana dell’imperativo morale ebraico, che continua a reclamare una misura, una risposta, un debito. Roth, con una scrittura che procede per stratificazioni improvvise e deviazioni brucianti, mostra come l’identità ebraica di Sabbath non sia un fondamento ma una ferita, un bagaglio di genealogie incompiute che riemerge nei momenti di massima dissipazione, quasi a suggerire che la storia ebraica, con il suo peso di assenze e di sopravvivenze, non possa essere espulsa nemmeno da chi tenta di dissolversi nel puro impulso. In questo senso l’osceno non cancella la dimensione etica: la amplifica, rivelando quanto la comicità feroce del romanzo sia l’altra faccia di un trauma storico che continua a risuonare.
Ne risulta un libro in cui il riso, la volgarità e la bestemmia non sono negazioni del retaggio ebraico, ma la sua deformazione estrema: il punto in cui l’identità, messa sotto pressione, si rivela nella sua crudissima verità. Roth compone così non solo la parabola di un uomo alla deriva, ma una meditazione, obliqua e potentissima, sulla difficoltà di essere eredi quando si è rimasti orfani di tutto, persino di sé stessi.