Salto mortale (1968) di Luigi Malerba è uno dei testi radicali e dimenticati della narrativa italiana del secondo Novecento. L’incipit sembra promettere il più codificato dei generi: camminando in un prato di periferia romana, Giuseppe, venditore di metalli, uomo qualunque, figura quasi anodina,  scopre il cadavere di un uomo e decide di condurre una sua indagine, parallela e concorrente a quella della polizia. Tutto lascerebbe presagire l’avvio di un giallo tradizionale, retto dal principio di causalità e dall’accumulo progressivo di indizi.
Ma Malerba, con una torsione tipicamente postmoderna, disarticola il genere sin dalle sue fondamenta. Ciò che appare un dato certo viene immediatamente smentito; ogni “scoperta” si rovescia nella propria negazione; ogni traccia si rivela trucco, simulacro, pura costruzione mentale del protagonista.
Giuseppe diventa così un narratore inaffidabile ante litteram, un soggetto che registra, e simultaneamente distorce, il reale, trasformando la ricerca della verità in un labirinto di ipotesi autoconsumanti, dove il falso si fa più plausibile del vero.
Con questo secondo romanzo Malerba entra a gamba tesa nel romanzo italiano, all’epoca ancora in larga parte dominato da forme narrative addomesticate e da un’idea di realismo rassicurante, e tenta di proseguire, con maggiore ironia e disincanto, la strada complessa e stralunata aperta da Gadda. Ma il suo tentativo non genera scuola: Salto mortale resta un episodio isolato, quasi una stella fredda nel panorama narrativo del periodo.
A parte la trilogia guizzardiana di Celati e le acute, nervose divagazioni retoriche di Manganelli, la linea postmoderna italiana si disperde, non coagula, non viene riconosciuta, lasciando Malerba in una condizione di splendida solitudine.
Il romanzo, sorprendentemente breve, è però di una densità notevole: beffardo, spigoloso, costruito su doppi e tripli livelli di narrazione, in cui il “giallo” non è tanto un genere da praticare quanto un dispositivo interno al testo, un motore concettuale attraverso cui mettere in scena l’ossessione del protagonista per una verità sempre differita, sempre contaminata dalla propria immaginazione. Il mistero non si scioglie: si moltiplica, aderendo al cuore stesso della finzione postmoderna, che non cerca di ordinare il caos ma di renderlo visibile.
Un capolavoro dimenticato, che anticipa molte delle questioni,  epistemologiche, linguistiche, percettive, che la critica attribuirà anni dopo alla narrativa più avvertita del tardo Novecento. Malerba ci era già arrivato: in anticipo, in solitudine, e con una lucidità impensabile all’epoca.

David Pacifici