Arancia meccanica si impone come una delle architetture filmiche più disturbanti del secondo Novecento, non per la violenza che espone, ma per il rigore con cui la incide nella forma stessa del racconto: Kubrick trasforma Burgess in un laboratorio linguistico e visivo, dove ogni immagine funziona come una dimostrazione per assurdo dell’idea moderna di soggetto. L’incipit: Alex che fissa la macchina da presa con un’avidità metafisica, circondato da un barocchismo post-industriale, annuncia che questo non è un film sulla devianza, ma sulla costruzione del desiderio come meccanismo di potere: un potere che non reprime, ma modella, disciplina, converte l’impulso in ingranaggio.
La messa in scena procede come un teorema visivo: carrelli geometrici, simmetrie oppressive, colori saturi fino all’artificio, un campionario di superfici che suggerisce che l’intero mondo è già un meccanismo di controllo ben prima che Alex ne diventi vittima.
Il nucleo storico del film emerge nella maniera più insidiosa: Kubrick non racconta il futuro, ma reinterpreta il presente tardo-industriale attraverso la lente del grottesco, mostrando come l’iconografia pop, la pubblicità, la morale utilitaristica e l’ideologia scientifica della riabilitazione convergano per generare un essere umano “ottimizzato”, cioè privato del conflitto che lo renderebbe libero. La Cura Ludovico, lungi dall’essere una deviazione narrativa, rappresenta la sintesi di un’intera tradizione filosofica che va dal comportamentismo alle teorie dell’ingegneria sociale: l’idea, inquietante nella sua semplicità, che si possa risolvere il male escludendo la possibilità stessa di scegliere.
Kubrick filma questo processo con una freddezza che diventa stile: la macchina da presa non è mai complice, osserva, seziona, registra la progressiva sostituzione dell’individuo con una funzione.
La potenza del film sta nel fatto che Alex, figura esecrabile e affascinante insieme, diventa il luogo in cui si scontrano due forme di violenza: quella anarchica, pulsionale, infantile, e quella istituzionale, amministrata, pedagogica. La prima scandalizza, la seconda normalizza; ma è la seconda a risultare, alla fine, infinitamente più terrificante, perché si presenta come cura. Alex non è il protagonista: è la cavia attraverso cui il film smaschera la deriva tecnocratica del potere moderno, il modo in cui la società tardo-capitalista pretende di correggere ciò che non capisce, rendendo la libertà un’anomalia e l’obbedienza una virtù. Tutto ciò viene espresso non attraverso il discorso, ma attraverso la composizione delle immagini: l’uso della musica classica come contrappunto ironico e crudele, i rallenty che trasformano la violenza in rituale, il gusto per l’iperbole visiva che denuncia l artificialità del mondo.
La grandezza di Arancia meccanica sta allora nella sua capacità di rivelare, con lucidità glaciale, che ogni tentativo di eliminare il male attraverso la manipolazione comporta un prezzo metafisico: la dissoluzione della libertà come principio. Kubrick non offre soluzioni, non pretende indignazione, non chiede empatia; costruisce un meccanismo (un’arancia a orologeria) che costringe lo spettatore a confrontarsi con l’idea più scomoda del film: che una società disposta a fabbricare automi per garantirsi l’ordine è già, di per sé, una società perduta. E in questa consapevolezza tagliente, inamovibile, profetica risiede l’attualità inesauribile di un’opera che continua, ancora oggi, a ferire.
David Pacifici