Il nastro bianco (Das weiße Band, 2009) rappresenta probabilmente l’esito più compiuto del cinema di Michael Haneke: film rigoroso, gelido, costruito su un bianco e nero tagliente che, lungi dal cercare il prestigio estetico, funziona come grammatica morale. La messa in scena alterna movimenti di macchina concisi a long takes che sospendono il tempo e al fuoricampo che lo deforma, componendo un’architettura visiva solida e al tempo stesso enigmatica, dove ogni gesto appare carico di un significato che sfugge non per mancanza, ma per eccesso di densità. Le ascendenze bressoniane, bergmaniane, dreyeriane non emergono come citazioni, ma come eco strutturali: rigorosa sottrazione, spiritualità rovesciata, frontalità morale.
Ambientato in un villaggio protestante della Germania settentrionale alla vigilia della Prima guerra mondiale, il film si articola come un’indagine incompiuta sugli eventi feroci e senza nome che attraversano la comunità. L’orrore, mai pienamente visibile, assume una forma strisciante che corrode le relazioni, infettando la quotidianità e rivelando la fragilità di un ordine che pretende purezza e produce solo repressione. Haneke, con una lucidità priva di qualsiasi didascalismo, lascia emergere la genealogia di una violenza che non esplode all’improvviso, ma fermenta lentamente all’interno di una struttura sociale irrigidita, aprendo crepe che anticipano, con inquietante precisione, le catastrofi del secolo a venire.
Il nastro bianco simbolo di purificazione imposto ai bambini, diventa così l’emblema di un moralismo che si traveste da virtù e si rivela invece come dispositivo disciplinare, preludio alla disgregazione della famiglia, alla proliferazione dell’ipocrisia, all’ossessione per la purezza etica e, infine, a una violenza che si diffonde come una malattia spirituale. L’eccellenza del cast, diretto con austero minimalismo, contribuisce a un’opera che non offre consolazioni né soluzioni, ma impone allo spettatore di sostare in quella zona grigia in cui il male non si mostra, ma lavora. Un film difficile da dimenticare.

David Pacifici