La parashà Toldot si presenta come un sistema di tensioni incrociate: una gravidanza attraversata da forze opposte, due fratelli che incarnano modalità divergenti dell’esistenza: l’impulso immediato e la densità del significato, e una famiglia in cui la trasmissione dell’eredità non è mai lineare ma continuamente negoziata tra corpo, destino e parola. Dalla vendita della primogenitura alla progressiva cecità di Yitzhak (Isacco), tutto converge verso una domanda fondamentale: come si costituisce un soggetto, e a quale prezzo simbolico?
Il momento più perturbante rimane tuttavia quello della berakhà. Qui la psicoanalisi trova una scena quasi paradigmatica: un padre cieco, una madre che vede troppo, un figlio che imita, un altro che viene espropriato. Yitzhak, privo del controllo visivo, diventa la figura di un’autorità simbolica che ha perso la capacità di discriminare tra somiglianza e identità, tra apparenza e destino; Rivka, al contrario, custodisce un sapere materno che eccede l’ordine del padre e lo reindirizza, come se percepisse che la benedizione non è solo un atto rituale ma una forma di investitura ontologica.
L’inganno di Yaakov (Giacobbe), che la lettura moralista riduce spesso a un espediente opportunistico, emerge allora come un vero e proprio rito di passaggio.
La soggettività, sembra dirci il testo, non nasce dalla purezza della trasparenza ma dall’attraversamento dell’ambiguità: è nel momento in cui Yaakov indossa la maschera dell’altro, assumendo su di sé la peluria prestata, la voce modulata, il profumo di Esav, che può affacciarsi a un’identità più profonda. La maschera non lo allontana dal suo volto autentico: lo prepara, lo provoca, lo costringe a mediare tra ciò che è dato e ciò che deve ancora diventare.
In questa prospettiva, la berakhà (benedizione) non è un semplice favore rubato, bensì l’atto traumatico che inaugura la coscienza. Ogni identità nasce da un gesto che non è mai completamente legittimo, mai interamente pacificato: è sempre il risultato di un attraversamento, un margine varcato, un’ambiguità abitata.
Yaakov diventerà Israel cioè colui che lotterà tutta la vita con angeli, fratelli e con se stesso, e il cammino nasce proprio lì, proprio in quel momento di imitazione sacrale in cui deve essere altro per diventare sé.
E forse è questo che la parashà suggerisce: “la benedizione” che fonda una vita non arriva quando siamo già “noi stessi”, ma quando accettiamo di passare attraverso una zona di opacità in cui il sé, ancora instabile, ancora non fondato, prova sulla propria pelle il paradosso più radicale dell’umanità: non c’è autenticità senza la maschera che la precede.