Nell’ebraismo, più che in ogni altra tradizione, la scrittura non è mai mero deposito, ma tensione costante tra preservazione e riattivazione, tra fissazione del senso e la sua inesauribile apertura. Scrivere significa, da subito, confrontarsi con un tempo che si sottrae: il tempo dell’oralità perduta, il tempo dell’evento rivelato ma non ripetibile, il tempo dell’esilio, dell’interruzione, della diaspora.
È in questo orizzonte che acquista senso anche il fatto che l’ebraico si legga da destra a sinistra. Non è solo una convenzione grafica, ma una metafora incorporata della temporalità ebraica: un avanzare ritornando, un procedere rivolti verso l’origine. Non si cammina in direzione del futuro lineare, ma verso ciò che è stato detto, per riattivarlo. La lettura diventa così un gesto di inversione temporale, un movimento che attraversa la pagina andando incontro alla sorgente, non per ripristinarla nostalgicamente, ma per riaprirla all’interpretazione. La direzione della scrittura è, in questo senso, già un midrash: un ritorno che produce avanzamento, una regressione che genera senso.
La scrittura ebraica, dalla Torah al Talmud, dalla Qabbalah alla letteratura rabbinica, è infatti il tentativo radicale di imprigionare il tempo, di catturare ciò che per sua natura tende a sfuggire: la voce. Ogni parola scritta è traccia di un dire che non c’è più, spettro di un ascolto che si è consumato. Ma in questa stessa perdita si apre uno spazio nuovo: non la nostalgia di un’origine, ma il lavoro incessante dell’interpretazione.
Il tempo, una volta inscritto nella lettera, non è più lineare, bensì stratificato, palinsestico. La pagina ebraica non procede, ma si sovrappone, ritorna, digrada, si contraddice e si ricompone in un’altra voce, in un altro secolo, in un altro luogo. Il midrash ne è forse l’esempio più emblematico: non commento, ma riscrittura; non esposizione, ma esposizione al testo, come direbbe Levinas, che leggeva nella scrittura ebraica un’apertura etica all’alterità radicale.
Scrivere, nell’ebraismo, non è mai un atto neutro. È un gesto che espone chi lo compie a una responsabilità illimitata: quella di farsi carico di un tempo che non ci appartiene, ma che ci attraversa.
Un tempo che non scorre, ma ritorna, si frammenta, si cela tra le righe. Un tempo che è già stato detto e, proprio per questo, chiede di essere detto di nuovo, ogni volta come fosse la prima.
Nella lettera ebraica pulsa dunque una forma di temporalità sospesa, dove l’origine è sempre posticipata e il futuro non è mai disgiunto dalla memoria. L’ebraismo non conosce l’istante assoluto, l’adesso puro: ogni presente è contaminato dal già detto e proteso verso il non ancora compreso. Scrivere significa allora abitare questa torsione del tempo, fare della parola un luogo in cui il passato non è chiuso e il futuro non è vuoto.
Forse è per questo che l’ebraismo ha preferito il commento al dogma, il dialogo alla chiusura, il pluralismo all’unica voce. Perché nella scrittura, nel suo farsi traccia e riscrittura, ciò che si salva non è il tempo che passa, ma quello che resiste. Quello che, pur essendo stato, continua a parlare.