Il celebre saluto vulcaniano, spesso relegato nell’immaginario collettivo a semplice curiosità pop-culturale legata a Star Trek, affonda in realtà le sue radici in una tradizione ebraica antichissima e carica di risonanze mistiche.
Lo spiegò lo stesso Leonard Nimoy in un’intervista del 2013 al National Yiddish Book Center, quando rievocò un episodio della sua infanzia: bambino in una sinagoga di Boston, durante una funzione in cui si stava intonando la Berakha, fu invitato dal padre a distogliere lo sguardo, poiché secondo la consuetudine ebraica la Benedizione Sacerdotale ( momento in cui i kohanim invocano la Presenza divina sul popolo) è considerata tanto intensa da non poter essere osservata direttamente.
Ma Nimoy disobbedì: e ciò che vide, cinque o sei uomini avanzare verso l’assemblea con le braccia protese e le mani aperte in una configurazione particolare, le dita separate in due gruppi a formare la lettera ebraica Shin (ש), iniziale di Shaddai, uno dei nomi di D-o, divenne un’immagine indelebile, destinata a riaffiorare molti anni più tardi nel momento in cui l’attore cercava un gesto solenne, alieno e nondimeno evocativo per caratterizzare la cultura vulcaniana. Il gesto dei kohanim, che nella tradizione liturgica accompagna la Birkat Kohanim, la benedizione «Che D-o ti benedica e ti protegga…» non è solo una forma rituale: attraverso le cinque fessure create dalle dita esso rappresenta i canali attraverso cui fluisce la benedizione divina, mentre la forma complessiva delle mani richiama la Shin, segno grafico della Presenza che si manifesta senza essere guardata.
Nel trasporre quella memoria nella finzione televisiva, Nimoy non compì dunque un atto di pura invenzione, ma una sorta di trasfigurazione secolarizzata di un gesto sacro: così il “Live long and prosper”, con la mano aperta a “V”, divenne non soltanto un segno identitario di una civiltà immaginaria, ma l’eco secolarizzata di una benedizione millenaria, un frammento di spiritualità ebraica migrato nello spazio narrativo della fantascienza. Ed è forse proprio questa contaminazione, la presenza di una radice liturgica che attraversa il velo della cultura pop senza perdere del tutto la sua gravità originaria, a spiegare perché quel gesto, ripetuto da milioni di persone ignare del suo significato, conservi ancora oggi un’aura di solennità implicita: come se, dietro il semplice movimento delle dita, continuasse a riverberare la Shekinah intravista da un bambino curioso, in una sinagoga di Boston, molti decenni prima.