Romanzo-saggio, memoir frammentato, autopsia emotiva: L’invenzione della solitudine è il testo in cui Auster si mette a nudo senza indulgenza, con una scrittura scarna, tagliente, quasi febbrile. Tutto nasce dall’improvvisa morte del padre, un uomo enigmatico, opaco, impenetrabile perfino ai familiari. La sua casa vuota diventa un teatro spoglio in cui il figlio rovista tra oggetti, ricevute, fotografie, micro-reliquie di un’esistenza sfuggente. E nel gesto di inventariare, Auster comprende che ciò che tenta di ricostruire non è una biografia, ma un’assenza.
Il padre è stato un uomo che ha scelto la sparizione come stile di vita, un reduce della propria infanzia che ha eretto il silenzio a corazza. Indagarlo significa inseguire una figura fantasma, e allo stesso tempo scoprire quanto di quella sparizione sia diventato parte integrante del figlio. La memoria, qui, non restituisce: sottrae. E ciò che resta è una geografia di mancanze.
Il contraccolpo è violento perché Auster, mentre scandaglia il vuoto paterno, si accorge di trovarsi esattamente nello stesso snodo: sul punto di lasciare la moglie, e di strappare il figlio a una presenza stabile. La “musica del caso” agisce come un contrappunto brutale, un montaggio alternato tra due solitudini che si riflettono a distanza di una generazione. Il passato, anziché spiegarsi, si ripete.
Il libro vibra continuamente tra analisi e confessione, tra riflessione filosofica e diaristica, con quella sintassi tesa e controllata che caratterizza il miglior Auster. La pagina non consola, non promette rivelazioni, non salva: è un tentativo di pensare l’invisibile, di dare una forma a ciò che non ha forma.
È un testo nervoso, spezzato, disseminato di epifanie secche. Una meditazione sulla perdita, certo, ma soprattutto un’indagine spietata sull’incomunicabilità ereditaria, sulla solitudine come malattia familiare. Auster si muove nell’ombra del padre per scoprire, con un misto di lucidità e terrore, che quella stessa ombra sta diventando la sua.
Un libro essenziale, inquieto, senza redenzione. Una camera d’eco dove l’assenza fa più rumore della presenza.
David Pacifici