Ci sono dischi che sembrano cadere dall’abisso, fragili e senza tempo, e Escalator di Sam Gopal è uno di questi. Pubblicato nel 1969, inciso in pochi giorni e subito destinato a quell’angolo oscuro della psichedelia inglese dove tutto sfuma. Ma chi ama frugare nei meandri del rock acido sa che qui c’è molto più di un capriccio freak: Escalator è un rituale lento e ipnotico, sospeso tra raga orientali, blues lisergico e poesia decadente.
Sam Gopal, percussionista di origini malesi, al posto della batteria usa le tablas, regalando al disco un pulsare esotico, sotterraneo, quasi medianico. Ma la vera rivelazione è la chitarra e la voce di un giovanissimo Ian Fraser Kilmister, meglio noto qualche anno dopo come Lemmy. Prima di diventare leader dei Motorhead, Lemmy qui è tutto languore e foschia: la sua voce profonda, greve, sembra uscire da una caverna notturna, tra visioni di amori tossici e visioni lisergiche.
Brani come Cold Embrace e The Sky Is Burning sono miniature folk-psichedeliche che stringono il cuore, mentre la title track Escalator vibra come un mantra urbano, un blues denso che sembra sprofondare nelle pieghe dell’inconscio. La produzione è essenziale, quasi scarna, ma è proprio quella nudità sonora che rende il tutto così diretto, senza fronzoli, solo vibrazioni pure. Escalator è uno di quei dischi che si ascoltano da soli, magari di notte, quando il mondo fuori tace e ogni nota sembra scavare dentro. Non ha la brillantezza dei grandi classici del periodo, ma ha quella qualità spettrale e grezza che sa di vissuto. Un documento prezioso di un’epoca e, insieme, un frammento dell’anima di Lemmy prima che il mito prendesse il sopravvento.
Un piccolo tesoro per chi sa ascoltare le voci dimenticate della controcultura.