Nel silenzio dei transiti, Stelzer innalza un’opera che potrebbe essere definita «romanzo-invisibile»: il suo protagonista lavora in un piccolo aeroporto, controlla passaporti, registra arrivi e partenze, eppure ciò che davvero osserva non è il movimento degli aerei, ma lo scorrere delle vite. Il titolo, «Cosa diremo agli angeli», è come un refrain sotterraneo: gli angeli non sono qui l’onniscente tribunale finale, ma spettri benevoli, spettatori (complici?) delle nostre vite minute, costituite da gesti, attese e fughe.
La materia del racconto è minuta: il doganiere non ha nome, né la sua voce pretende di diventare epica. Eppure, nella sua fissazione per un viaggiatore abituale «magro, lo sguardo aperto. Sembra una di quelle persone nate per rendere gli altri contenti» si condensa la vertigine dell’osservazione. Quando quel viaggiatore non si presenta più, l’equilibrio quotidiano si incrina, e ciò che resta è una serie di specchi: storie che si riflettono, domande che si moltiplicano. Così, il «giallo» del romanzo non è la scoperta di un colpevole, ma l’aprirsi di un abisso: cosa significano quel passaporto, quel volto, quel silenzio nello sportello?
Lo stile di Stelzer è calibrato con rigore quasi ascetico: brevi capitoli, sintassi essenziale, punteggiatura che scandisce come un orologio interno. Le osservazioni sono di una precisione quasi entomologica, si scorgono «dettagli curati, che illuminano particolari per i più insignificanti» (come è stato scritto), e in questo scrutare risiede l’energia del libro. L’ordinario – la fila, la borsa, l’ombra sotto gli occhi, diventa soglia verso l’insolito, meta del desiderio e del timore.
E che cosa diremo agli angeli? Forse: che abbiamo vissuto come detective ansiosi «abbiamo studiato i profili di criminali e lestofanti, acceso speranze nelle vittime, individuato colpevoli ormai datisi alla macchia» , ma che poi, scoperta la verità, ci siamo fermati, perché «raggiungere un obiettivo lascia un senso di spossatezza».
In tale sospensione, il romanzo trova la sua essenza: non la conclusione risoluta, ma la domanda che resta in volo.
Infine, c’è nella pagina di Stelzer una delicata dissoluzione del confine tra chi guarda e chi è guardato, tra l’osservatore e l’osservato, tra l’io che narra e l’alterità che sfugge.
Il piccolo aeroporto diventa un limbo simbolico, un hub esistenziale dove le identità transitano, si sfiorano, si dissolvono. E noi, come il protagonista, restiamo in ascolto: di ciò che è stato, di ciò che non è stato, e di ciò che avremmo potuto dire.