Un disco fantasma, sospeso tra folk psichedelico e poesia esoterica, pubblicato nel 1969 e subito inghiottito dal silenzio. WOMAN FROM THE WARM GRASS è l’unico album di ROBIN SCOTT prima della metamorfosi elettronica degli anni ’80 (M e l’iconica “Pop Muzik”), ma già qui si percepisce la mente lucida e irrequieta di un artista refrattario a ogni etichetta.
Registrato in un’Inghilterra crepuscolare, ancora intrisa di utopia hippie ma già contaminata da inquietudini post-psichedeliche, il disco unisce lirismo pastorale, echi barocchi e improvvise fratture dissonanti. Scott scrive e canta come un visionario: le sue ballate, percorse da flauti, chitarre acustiche e linee vocali sottilmente teatrali, sembrano provenire da un altrove — più vicino a Nick Drake o Donovan che alle mode dell’epoca, ma con una cupezza sotterranea che lo rende unico.
La title track, con i suoi toni quasi liturgici, è un inno alla femminilità come principio cosmico e dissoluzione dell’io. Song of the Sun e Girl (With the Orange Hair) alternano dolcezza pastorale e allucinazione erotica, mentre The Sound of Rain rivela un gusto per l’astrazione sonora che anticipa certe sperimentazioni ambient. Tutto è fragile, sospeso, come inciso su un nastro pronto a smagnetizzarsi.
WOMAN FROM THE WARM GRASS appartiene a quella contro-Inghilterra sonora che si muoveva ai margini della Swinging London: il lato ombroso del sogno, più affine ai poeti che ai rockers. È un album che parla piano, ma resiste al tempo: mistico, malinconico, eppure lucidissimo.
Un’opera dimenticata, da ascoltare come si sfoglia un vecchio manoscritto ritrovato.