Siamo nel 1967 e Little Richard sta cercando di reinventarsi. Dopo aver incendiato gli anni ’50 con brani come Tutti Frutti e Long Tall Sally, aveva attraversato una serie di crisi, fughe dal rock’n’roll, ritorni al gospel, cambi di etichetta e disperati tentativi di restare rilevante. Il mondo musicale stava cambiando: il rock era diventato psichedelico, il soul dominava le classifiche con Otis Redding e James Brown, e il vecchio Richard, esuberante e incontenibile, non sembrava più trovare il suo posto.
Con l’approdo alla Okeh Records, etichetta R&B sussidiaria della Columbia, il suo amico Larry Williams lo spinse a inseguire il sound del momento: fiati squillanti, groove serrati, atmosfere alla Motown. Ma Richard odiava tutto questo. “Io non sono un artista Motown!” dichiarò in seguito con il suo consueto furore. Il sound era raffinato, il suo spirito era crudo. Non sorprende che rifiutò il contratto e che l’album uscì comunque, senza il suo entusiasmo.
Eppure, ascoltandolo oggi, il disco pulsa ancora di un’energia indomabile. Le sue versioni di Money e Poor Dog hanno la stoffa delle reinterpretazioni definitive, mentre la sua voce, immortale, esagerata, funambolica, piega il materiale a sé, lo fa suo con la consueta teatralità. Richard si muove nervoso dentro un vestito che non è il suo, ma non può fare a meno di riempirlo con tutta la sua potenza vocale.
Il pubblico americano lo ignorò, i critici dell’epoca non se ne accorsero, ma oggi è un oggetto di culto in Europa, dove venne pubblicato su Epic e dove i suoi 45 giri hanno trovato nuova vita tra collezionisti e cultori del soul più viscerale.