“Giles ragazzo-capra” (Giles Goat-Boy, 1966) è il quarto romanzo dello scrittore statunitense John Barth, tra le figure centrali del postmodernismo americano. Pubblicato in Italia soltanto nel 1972 da Rizzoli, il libro — mai più ristampato né riedito — è oggi quasi introvabile, salvo in qualche biblioteca pubblica o su mercatini dell’usato, dove può capitare di rinvenirlo, come nel mio caso, a pochi euro: un reperto letterario tanto prezioso quanto dimenticato.
Opera ambiziosa e radicalmente sperimentale, Giles ragazzo-capra intreccia satira politica, allegoria filosofica e invenzione metaforica, fondendo in un unico corpo narrativo la riflessione sulla Guerra Fredda e una parodia monumentale dei sistemi di potere e di sapere dell’Occidente.
La trama, solo in apparenza assurda, segue Giles, un ragazzo allevato tra le capre e convinto di essere il Messia di una gigantesca istituzione universitaria, la cosiddetta Grande Università, trasparente simbolo del mondo contemporaneo ridotto a campus ideologico e macchina burocratica. Attraversando un universo surreale, popolato da figure eccentriche e deformate, Giles intraprende un viaggio di formazione parodico, in cui il mito si confonde con la metafora, la teologia con la teoria dei sistemi, l’apocalisse con la dialettica accademica.
Con la sua lingua labirintica e autoriflessiva, Barth costruisce un testo che è al tempo stesso epopea e ironia dell’epopea, un romanzo-sistema che si interroga sulla natura del potere, dell’identità e della realtà stessa. Sotto la superficie grottesca e umoristica, il libro cela una riflessione lucida e corrosiva sulla condizione dell’uomo moderno, intrappolato tra tecnologia, ideologia e desiderio di salvezza.
Eppure, nonostante la sua importanza e la sua fama presso la critica, Giles ragazzo-capra rimane un capolavoro dimenticato, condannato a un anonimato ingiusto: come un tesoro sepolto di cui la cultura contemporanea ha smarrito la chiave, forse perché troppo impegnata a non chiedersi più dove essa conduca.