Con Il diavolo, Andrzej Żuławski firma una delle opere più radicali e convulse del cinema europeo del dopoguerra: una rivisitazione metafisica dell’Amleto trasformata in parabola politica e allucinazione teologica.
Girato nel 1972, in un’epoca di censura feroce e repressione ideologica, il film rappresenta una delle più straordinarie metafore sul collasso morale e spirituale della Polonia comunista, mascherata sotto le sembianze di un dramma storico ambientato alla fine del Settecento, durante le spartizioni del paese.
La trama un giovane nobile liberato da un misterioso personaggio durante un massacro e trascinato in un pellegrinaggio di follia e violenza, è solo l’innesco per un delirio barocco e politico, in cui la Storia diventa teatro dell’ossessione e della colpa collettiva.
Żuławski costruisce un film che non racconta, ma evoca: un flusso d’immagini, di urla, di gesti convulsi, in cui l’azione è un moto epilettico e il dialogo una litania delirante.
Dal punto di vista stilistico, Il diavolo è un’opera parossistica e totalizzante, una sinfonia di eccessi formali e tematici.
La regia è composta di movimenti di macchina frenetici, spesso circolari, che annullano ogni prospettiva stabile e immergono lo spettatore in una dimensione di caos controllato.
La fotografia di Andrzej Jaroszewicz, bruegeliana e infernale, alterna interni cupi e saturi a esterni lividi e spettrali, trasformando ogni inquadratura in una tavola apocalittica dove convivono sacro e demoniaco, erotismo e morte.
La componente visiva è costantemente attraversata da una tensione tra falso storico e verità metafisica:
Żuławski finge di mettere in scena un’epoca passata, ma in realtà rappresenta l’agonia del presente, la superstizione ideologica del regime, la paranoia religiosa, la degradazione del corpo sociale e individuale.
L’“esorcismo” che attraversa il film non è rivolto al Male, ma al fallimento dell’Uomo, al vuoto che rimane dopo la caduta di ogni fede.
L’energia del film è volutamente isterica, fisica, animalesca: Il diavolo sembra oscillare tra sabba, farsa e tragedia elisabettiana, in un continuo cortocircuito tra il grottesco e il sublime.
Ogni corpo è posseduto, ogni parola è urlo, ogni gesto è un tentativo disperato di liberazione.
In questa dimensione allucinata, Żuławski traduce la lezione di Artaud e di Grotowski in linguaggio cinematografico: il corpo attoriale come campo di battaglia dello spirito, l’immagine come atto rituale e violento.
Il Diavolo del titolo non è una figura demoniaca nel senso religioso, ma un principio ontologico del disordine, una forza centrifuga che lacera il tessuto della realtà.
In questa prospettiva, il vero “diavolo” è il cinema stesso: lo sguardo che rivela, smaschera, corrompe, e infine annienta ogni illusione di armonia.
Żuławski ne fa uno strumento di possessione estetica, un atto di conoscenza attraverso il delirio.
La censura polacca, cogliendone la portata allegorica, vietò il film per quasi un decennio, intuendo la sua natura profondamente eversiva: non solo contro il potere politico, ma contro la stessa struttura morale della rappresentazione.
Definito spesso “maledetto”, Il diavolo è in realtà un film di lucida consapevolezza, una diagnosi metafisica del fallimento umano, della nostra incapacità di dare forma al caos interiore.
Opera di vertiginosa libertà, apocalittica e sensuale, Il diavolo resta una delle più alte espressioni del cinema visionario europeo, ponte ideale tra le convulsioni di Possession e le allegorie mistiche di Tarkovskij.
Un film impossibile da “vedere” una sola volta, perché non si guarda: si subisce.
Un capolavoro assoluto.