Liberamente tratto dal racconto omonimo di John Cheever, The Swimmer rappresenta una delle più originali e misconosciute incursioni nel cinema statunitense tardo-classico.
Frank Perry, con l’apporto determinante della sceneggiatura di Eleanor Perry, costruisce un film di straordinaria coerenza stilistica e concettuale, in cui la linearità narrativa del testo letterario viene trasfigurata in un percorso simbolico, psichico e topografico.
La vicenda di Ned Merrill, uomo di mezza età che decide di attraversare a nuoto le piscine del proprio quartiere per tornare a casa, è una parabola sull’alienazione e sul crollo del sogno americano.
Il film utilizza la struttura di un road-movie stazionario: il movimento non è orizzontale (da un luogo all’altro), ma verticale, verso la progressiva rivelazione di un trauma interiore e di una verità rimosso-esistenziale.
Ogni piscina è una “stazione” della via crucis del protagonista, un microcosmo che riproduce le diverse declinazioni del disfacimento morale della middle-class suburbana: edonismo, ipocrisia, aggressività passiva, alienazione affettiva.
La regia di Perry impiega con precisione chirurgica i codici formali del melodramma e del cinema realista per poi sovvertirli dall’interno: l’uso sistematico di long shot e profondità di campo conferisce agli spazi domestici e ai giardini un valore metafisico, amplificando il senso di smarrimento del protagonista; il colore saturo e abbagliante, tipico del technicolor tardo-anni ’60, diventa paradossalmente il veicolo dell’angoscia, come se l’eccesso di luce denunciasse la decomposizione morale del mondo rappresentato; il montaggio ellittico, privo di raccordi convenzionali, sospende la percezione temporale e introduce un senso di straniamento crescente: la narrazione si piega così in un loop onirico, dove passato e presente collassano.
Sul piano della direzione d’attori, Burt Lancaster offre una delle sue interpretazioni più complesse: la sua fisicità classica, da eroe hollywoodiano, è decostruita fino a diventare segno di disfatta.
Il corpo, lucido, atletico, filmato come superficie scultorea, si svuota progressivamente di vitalità e diventa guscio, icona residua di un virilismo morente.
La sua performance è giocata tutta sulla tensione fra energia cinetica e immobilità emotiva: un dinamismo che non conduce a nessuna meta.
Tematicamente, il film si colloca tra Cheever e Antonioni, tra il microcosmo borghese suburbano americano e l’alienazione esistenziale del moderno europeo.
Il paesaggio del Connecticut, trasfigurato in luogo mentale, rimanda all’architettura simbolica di L’avventura e Il deserto rosso: gli spazi non sono ambienti realistici, ma proiezioni psichiche.
In questa dimensione sospesa, la piscina diventa il topos centrale: superficie specchiante, luogo di purificazione e di perdita, metafora liquida del tempo e della memoria.
Sotto il profilo produttivo, The Swimmer rappresenta un punto di rottura: pur provenendo dal sistema degli studios (Columbia), ne sovverte le logiche interne.
L’operazione di Perry anticipa di qualche anno il New Hollywood, adottando i codici dell’indipendenza estetica, tempi dilatati, soggettività, ellissi, finale aperto, pur mantenendo l’impalcatura produttiva tradizionale.
Non sorprende che il film, giudicato “destabilizzante”, subì tagli e un ritardo d’uscita di due anni.
La chiusura, con Ned Merrill che giunge infine alla propria casa deserta, abbandonata e in rovina, è una delle sequenze più potenti del cinema americano post-bellico: la negazione del ritorno, la materializzazione dell’assenza, l’immagine definitiva del sogno americano come spazio svuotato di senso.
Film di straordinaria complessità, Un uomo a nudo è oggi riconosciuto come un capolavoro minore ma fondativo: un’opera di transizione tra l’ottimismo crepuscolare del cinema classico e l’autocoscienza tragica del moderno.
Lancaster, che imparò a nuotare appositamente per il ruolo, diventa così icona del naufragio dell’uomo occidentale, figura lucida e dolente di un’America che affoga nella propria superficie.