Oggetto filmico raro, un noir anacronistico e visionario che riporta il genere alla sua dimensione più fisica e sensuale. Girato interamente in cinque lunghi piani sequenza su pellicola 35mm, il film è insieme un esercizio di stile e una dichiarazione d’amore alla materia stessa del cinema, un atto di fede nel potere narrativo del montaggio assente, nella continuità come forma di ipnosi.
La trama è solo apparentemente classica: Mel Sampson, detective privato di Los Angeles, viene incaricato di ritrovare una giovane donna scomparsa, ma nel corso della ricerca si ritrova a riaprire le ferite del proprio passato. La struttura narrativa, scomposta e circolare, gioca con i tempi e le prospettive, mescolando memoria, sogno e indagine in un labirinto morale che ricorda i racconti di Chandler filtrati attraverso la lente deformante di David Lynch. È un hardboiled postmoderno, che usa i codici del genere per disarticolarli, per mostrarne la nudità e l’assurdità sentimentale.
John Hawkes offre un’interpretazione memorabile: corpo nervoso, volto scavato, voce stanca, una figura a metà tra lo Sean Penn di “Dead Man Walking” e il Vincent Gallo di “Buffalo ’66”, capace di trasformare ogni silenzio in un gesto espressivo. Attorno a lui, una costellazione di personaggi eccentrici e perduti, spogliarelliste malinconiche, cowboy fuori tempo, uomini senza destino, che compongono il ritratto di una Los Angeles crepuscolare, squallida e bellissima, dove la luce si piega come una menzogna e il tempo sembra essersi fermato.
Hauck, alla sua seconda prova registica, dimostra un controllo straordinario del ritmo interno e della tensione visiva: i suoi piani sequenza non sono virtuosismo, ma coreografia morale, costruzione drammatica che restituisce al noir la sua sostanza tragica e romantica. In questo senso Too Late è più di un film: è un atto di resistenza cinefila, un noir fuori dal tempo, sospeso tra il fantasma del cinema classico e l’ossessione della modernità per l’immagine che non può più nascondere nulla.