Film che rappresenta uno degli equivoci estetici più perniciosi del cinema europeo contemporaneo: un film che, sotto la maschera di favola surreale e romantica, istituisce in realtà il paradigma di un midcult zuccheroso e vacuo, destinato a segnare, con le sue tinte sature e la sua retorica sentimentalista, l’immaginario visivo dei decenni successivi.
Dietro l’apparente inventiva visiva, si cela una struttura narrativa banale, inconsistente e inconcludente, che non regge nemmeno alla prova dei primi minuti: la storia si accartoccia rapidamente su sé stessa, trasformando un intreccio già gracile in una parodia del romanticismo, fino a scivolare in una dinamica che, a voler essere rigorosi, sfiora lo stalking sentimentalizzato.
Audrey Tautou, con il suo personaggio costruito a colpi di manierismi e civetterie, incarna perfettamente l’odiosa figura della protagonista “eccentrica per decreto”, che dietro lo sguardo sognante nasconde una sterilità drammaturgica assoluta. I dialoghi, infarciti di aforismi di una banalità imbarazzante e di una retorica pseudo-poetica, non producono mai scintille narrative, ma solo un accumulo di ovvietà travestite da lirismo.
L’impianto visivo – fatto di saturazioni cromatiche, scenografie da cartolina e un montaggio compiaciuto fino alla nausea – non riesce a compensare il vuoto concettuale: anzi, ne amplifica la superficialità, producendo un effetto di demenza patinata, livida e al tempo stesso anestetizzante. Non sorprende che il film sia diventato un feticcio per una platea di spettatori alla ricerca di consolazioni estetiche: impiegate trentenni in crisi d’identità, studenti in posa bohémienne, spettatori assetati di “originalità” purché garantisca rassicurazione.
In realtà, ciò che Amélie codifica è un modello femminile stereotipato, travestito da emancipazione: la cosiddetta estetica della “frangetta peperina” – sofisticata ma metropolitana, alternativa ma romantica, sognatrice ma ironica, seduttrice ma sessuofobica, intellettuale ma irrimediabilmente stupida. È la caricatura dell’indipendenza trasformata in posa estetica, perfetta per la riproduzione infinita in pubblicità, moda, serie televisive.
Il risultato, dietro la sua fama internazionale e il culto istantaneo, resta un prodotto inguardabile, simbolo di come il cinema europeo abbia saputo svendere la complessità a favore di una dolciastra estetica da cartolina, capace solo di anestetizzare lo spettatore con un’immaginaria Parigi che non esiste se non come gadget turistico.