Sotto la scorza sgangherata di quello che, a prima vista, sembrerebbe soltanto l’apoteosi del trash come dispositivo narrativo (o meglio: anti-narrativo), Pierino contro tutti si rivela invece un oggetto culturale degno d’attenzione, in quanto dispositivo semiotico perfettamente compiuto del caos italiano anni ’80.
Il film non possiede una trama in senso classico, ma proprio in questo consiste la sua forza: è un film rizomatico, in senso deleuziano, una macchina da guerra semiotica fondata su un meccanismo iterativo e centrifugo. Ogni gag, ogni barzelletta, ogni pernacchia diventa segno autoreferenziale, e si muove all’interno di un sistema chiuso, che non ha bisogno di logica o sviluppo, ma solo di riconoscibilità. Non si guarda Pierino per “scoprire come va a finire”, bensì per riconoscere il codice comune: la grammatica della risata di pancia, triviale e virile, infantile e ossessivamente fallocentrica.
La periferia romana invernale, fotografata in modo dimesso e privo di qualsiasi tentativo estetico, restituisce una Roma pasoliniana svuotata di ogni lirismo, dove il sottoproletariato non è più portatore di una visione poetico-politica, ma soltanto il fondale sbiadito per una mitologia al ribasso. In questo senso, Pierino contro tutti è quasi un anti-Accattone: il corpo che cade non è più tragedia, ma rumore intestinale.
Alvaro Vitali, nel ruolo della vita, non recita ma abita il corpo comico come corpo-pupazzo, pre-freudiano e post-televisivo. Gesticola, strepita, schiocca la lingua: un clown grottesco e rituale, simbolo di una maschilità ridicola, regressiva, ma saldamente dominante. Michela Miti, invece, incarna il sogno erotico anni ’80, tra Blitz, Gin Fizz e i fotoromanzi da edicola.
Il film è oggettivamente povero, male illuminato, goffamente montato. Eppure funziona, e non nonostante, ma grazie a tutto questo. È puro effetto di superficie, come certi ready-made duchampiani che diventano arte proprio nel momento in cui rifiutano ogni pretesa artistica. Un’estetica dell’insignificanza piena, dove ogni scivolamento, ogni peto, ogni gioco di parole scolastico non è che l’eco di una cultura italiana che si ride addosso mentre crolla.
E poi, il dettaglio mitico: Sergio Leone, invitato da Girolami alla proiezione, pare restò sbigottito. Non si capisce se per la libertà anarchica del film o per la catastrofe culturale che annunciava. Forse entrambi.