Noir urbano ambientato nel Giappone del dopoguerra in una torrida estenuante estate: racconta la vicenda di un giovane detective, Murakami (interpretato da un giovanissimo e bellissimo Toshiro Mifune), che perde la pistola d’ordinanza a causa di un borseggiatore. L’arma finisce nelle mani di un criminale e viene usata per commettere diversi delitti. Il film segue le indagini serrate di Murakami, che, con l’aiuto di un collega più esperto (Takashi Shimura) figura di maestro-padre, cerca di rintracciare la pistola e fermare il colpevole.
In Cane randagio la vicenda apparentemente esile si rivela una parabola che trascende la trama poliziesca.
L’arma sottratta a Murakami non è solo motore dell’intreccio, ma simbolo di una colpa che non appartiene solo all’individuo: essa è la proiezione materiale di una responsabilità condivisa, di una società che, all’indomani della sconfitta, vive in uno stato di prostrazione morale, economica e culturale.
Il Giappone del 1949 che Kurosawa filma è un corpo ferito. La città è devastata dalla guerra, le strade ribollono di un sottoproletariato urbano in bilico tra sopravvivenza e illegalità, le folle affollano i mercati neri in una febbrile contrattazione di beni e corpi.
Qui l’influenza della cultura americana appare duplice: da un lato le immagini del noir americano filtrano la costruzione estetica del film; dall’altro l’americanizzazione forzata del dopoguerra (dalle sigarette al jazz, dai manifesti alle nuove forme di consumo) penetra nello scenario urbano come segno di un’ibridazione culturale vissuta con ambivalenza, oscillante tra fascinazione e perdita d’identità.
In questo paesaggio, la pistola diventa oggetto emblematico e liminare: arma occidentale, segno di modernità e violenza, ma anche prolungamento del vuoto morale che avvolge il Giappone sconfitto.
Tecnicamente, Kurosawa costruisce questa allegoria sociale attraverso una regia che coniuga profondità di campo e soggettiva.
La profondità stratifica lo spazio urbano: in primo piano il detective spaesato, sullo sfondo la massa dei corpi marginali che incarnano il sottoproletariato.
Non si tratta di realismo neutrale, ma di una visualizzazione ottica della congestione sociale e del caos morale.
La soggettiva, invece, trascina lo spettatore dentro l’esperienza percettiva di Murakami, amplificando la claustrofobia psichica e la tensione etica: lo spettatore non vede solo ciò che il protagonista vede, ma è costretto a percepire come lui, a condividere l’angoscia e la febbre della ricerca.
È qui che “Cane randagio” si fa anticipatore della modernità cinematografica: la dialettica tra spazio sociale e sguardo individuale verrà ripresa da Scorsese in Taxi Driver, dove la New York degradata, città anch’essa segnata da sottoproletariato urbano, multiculturalismo e americanizzazione consumistica, diventa lo specchio deformato dell’interiorità di Travis Bickle. Parallelamente, la nouvelle vague francese assimila la lezione kurosawiana: Godard trasforma la soggettiva in strumento di straniamento politico, mentre Melville, in Le Samourai, restituisce un noir rarefatto, geometrico, in cui l’eroe solitario sembra un discendente diretto del detective kurosawiano, travolto da codici e colpe in un mondo senza appigli.
Il film, dunque, non è solo un poliziesco giapponese ante litteram, ma un crocevia genealogico: da Dostoevskij a Kurosawa, da Melville a Scorsese, passa la stessa domanda su colpa, redenzione e deformazione dello sguardo. La città del dopoguerra, affollata di miserabili, segnata dall’ibridazione con l’Occidente, non è mero sfondo ma metafora del collasso morale, mentre la forma filmica diventa il luogo in cui questa crisi si fa visibile: profondità come congestione sociale, soggettiva come immersione psichica. Così “Cane randagio” si impone come film liminare, in cui la modernità non è semplice rottura stilistica, ma testimonisnza storica di rappresentare un mondo in frantumi.
David Pacifici