Batterista dei primi Jefferson Airplane e poi fondatore dei febbrili Moby Grape, Alexander “Skip” Spence è una delle figure più enigmatiche e maledette della scena psichedelica di San Francisco. Canadese di nascita, figlio spirituale di un’America che oscillava tra l’utopia lisergica e la paranoia post-happening, Spence incarna la deriva di un’epoca che, esaurita la promessa di libertà, cominciava a specchiarsi nella follia.
Dopo un episodio allucinato, un tentativo di aggressione ai compagni di band con un’ascia, durante un delirio persecutorio a New York, Spence viene ricoverato nel reparto psichiatrico del Bellevue Hospital. Da quella degenza nascerà Oar (1969), inciso in totale solitudine dopo la dimissione, in soli pochi giorni, con mezzi minimi e una lucidità che somiglia alla febbre. È il disco più venduto? No. Anzi: il meno venduto del catalogo Columbia. Ma anche uno dei più misteriosi e inquietanti della musica americana.
Definito all’epoca “one of the most harrowing documents of pain and confusion ever made”, Oar è in realtà molto più che un diario di follia: è una radiografia dell’anima. Spence costruisce un mondo sonoro che alterna blues apocalittici e country lunare, frammenti di vaudeville disseccato e ballate psicotiche, con una grazia che nasce dall’abisso. La voce è distante, gli strumenti sembrano fluttuare nel vuoto, la registrazione è grezza come un pensiero che non ha ancora scelto se dire la verità o tacere per sempre.
Più che un disco, Oar è una seduta medianica. Un autoritratto scabro, incoerente e rivelatore, la colonna sonora di un gioco a nascondino condotto contro se stessi: Spence non cerca la salvezza, ma la mappa del proprio smarrimento. È un’opera in cui il dolore diventa architettura e la confusione si fa linguaggio.
A distanza di decenni, Oar resta un documento irripetibile di vulnerabilità artistica, un outsider masterpiece in cui la musica si piega sotto il peso della mente che la genera. L’ascoltarlo significa assistere non alla follia, ma alla sua traduzione in canto, un gesto che, come pochi altri, segna il confine tra l’uomo e il suo fantasma.