Phallus Dei, esordio degli Amon Düül II, non è semplicemente un album di rock psichedelico tedesco, ma la prima vera epifania del krautrock, un atto di nascita sonoro in cui la forma musicale implode per lasciare spazio all’esperienza.
Registrato a Monaco nel 1969, in un’Europa attraversata dalle convulsioni del Sessantotto, il disco è l’esito più lucido della frattura tra arte e sistema: un suono collettivo, anarchico, visionario, che nasce dalla scissione interna del collettivo originario Amon Düül, da un lato la comune hippie, dall’altro il gruppo che decide di trasformare l’improvvisazione in linguaggio. Il risultato è Phallus Dei (“Il fallo di Dio”), titolo provocatorio e tribale, manifesto della fusione tra sacro e corporeo, mistica e carne, eros e caos.
L’apertura, Kanaan, è già una soglia: tamburi tribali, chitarre distorte, organo in trance, frammenti di melodia che si dissolvono come visioni. È la nascita di un continente sonoro nuovo, in cui il tempo lineare occidentale si disintegra e lascia il posto a un ritmo circolare, ipnotico, arcaico.
Segue Dem Guten, Schönen, Wahren (“Il Buono, il Bello, il Vero”): un paradosso platonico reso carne elettrica, con la voce di Renate Knaup che emerge come una sacerdotessa in un tempio di risonanze.
Con Luzifers Ghilom, la tensione si fa apocalittica: un magma di chitarre e percussioni, un crescendo che non mira alla catarsi ma all’annullamento, un sabba collettivo che prefigura tanto il noise quanto il progressive. L’intermezzo Henriette Krötenschwanz, ironico e distorto, prepara la lunga suite finale, la ventiminutaria Phallus Dei, vertice e abisso del disco: un organismo vivente che cresce, si espande, muta, sfianca, ipnotizza. È qui che la musica diventa rito sonoro puro, dove si viene risucchiati nell’inferno.
In questo senso, Phallus Dei è l’anti-pop per eccellenza: rifiuta il concetto di canzone, disintegra la struttura strofa-ritornello, sostituisce la melodia con la forma rituale del suono. Non è un album da ascoltare: è un luogo da attraversare. Le imperfezioni tecniche, le improvvisazioni sfilacciate, l’assenza di pulizia produttiva sono parte del progetto: documentano un momento di libertà collettiva, di trance creativa in cui la precisione è sacrificata alla verità dell’esperienza.
Sul piano storico, il disco inaugura una stagione in cui la Germania cerca la propria voce musicale autonoma, emancipandosi dalla colonizzazione angloamericana. Gli Amon Düül II, con Can e Faust, aprono la strada a un linguaggio nuovo, non derivativo, capace di fondere filosofia, tribalismo e sperimentazione elettrica. La loro psichedelia non è fuga, ma metafisica del suono: una ricerca di assoluto dentro la materia.
Phallus Dei resta, a più di mezzo secolo di distanza, un’opera di frontiera, ancora disturbante e vitale. La sua forza è nell’eccesso, nella sua voracità di spazio e di tempo, nella volontà di dire tutto, corpo, Dio, follia, nascita, fine, in un unico suono collettivo.